La parola ortodossia significa “retta dottrina”. L’appellativo di ortodosso venne dato alle comunità cristiane bizantine che, in contrapposizione alle Chiese nestoriane e monofisite, hanno accettato esplicitamente e integralmente l’insegnamento cristologico degli antichi concili (Nicea, Efeso, Calcedonia) e quindi ritengono, a differenza degli altri orientali, di professare la retta dottrina circa le due nature, umana e divina, dell’unica Persona di Cristo. Si tratta delle comunità orientali e slave che avevano il loro riferimento politico e religioso nella città di Costantinopoli, poi Bisanzio, oggi Istambul, dove l’imperatore romano aveva spostato la propria sede.
Già dal IV-V secolo il patriarca di Costantinopoli richiese sempre più insistentemente che i concili ecumenici riconoscessero alla sede bizantina il ruolo di seconda Roma, in pratica un corrispettivo ecclesiastico del nuovo assetto imperiale. Così ai quattro maggiori centri della cristianità, Roma, Gerusalemme, Antiochia di Siria e Alessandria d’Egitto, si aggiunse come quinto polo la città del Bosforo. Nel frattempo, con l’appoggio dell’imperatore, tutte le regioni dell’Europa orientale, dei Balcani e dell’Asia Minore vennero progressivamente assoggettate alla giurisdizione ecclesiastica di Costantinopoli, così che l’organizzazione religiosa aiutasse a consolidare l’egemonia imperiale della nuova capitale su tutto l’Oriente romano. Come già abbiamo visto, tali pretese furono tra le cause della rottura sia politica che religiosa tra i bizantini e i cristiani dipendenti dagli altri patriarcati orientali di origine apostolica: i giacobiti di Siria, i copti, gli etiopi e gli armeni, i quali, non senza un intento spregiativo, definirono le Chiese fedeli a Costantinopoli melchite, cioè imperiali (dal termine meleck = sovrano).
Dal VI secolo le spinte autonomiste dei bizantini rispetto alla cristianità latina furono sempre più forti, adducendo come giustificazione l’estensione anche al campo ecclesiastico della dicotomia realizzatasi nell’impero con la divisione tra la parte occidentale e quella orientale. Tali rivendicazioni vennero sempre respinte dai pontefici di Roma e dalla maggior parte dei vescovi della cristianità, che insistevano sul fatto che mentre l’amministrazione civile poteva essere frazionata, l’unità della Chiesa universale si fondava sul primato romano per volontà divina, indipendentemente dalle scelte imperiali.
I secoli VIII e IX in particolare furono segnati da numerosi episodi di tensione e di reciproco allontanamento tra Roma e Costantinopoli, con periodi di vera e propria separazione formale, come nell’862, con la disputa fra il patriarca Fozio e il papa Niccolò I.
La rottura definitiva, i cui effetti permangono tutt’oggi, si ebbe nel 1054. In quegli anni le relazioni tra Roma e Costantinopoli erano di fatto sospese, in un clima di indifferenza reciproca. Il patriarca Michele Cerulario, di tendenze fortemente anti occidentali, desiderava estendere la sua influenza alle regioni dell’Italia meridionale, conquistate dall’esercito bizantino; per raggiungere questo scopo decise di bloccare i timidi contatti che erano appena iniziati tra il Papa e l’imperatore, esasperando la situazione di contrasto tra Oriente ed Occidente: fece chiudere tutti i luoghi di culto latini presenti a Costantinopoli, schernì pubblicamente gli usi e le tradizioni della Chiesa romana, mandò all’Italia meridionale un ultimatum perché adottasse la liturgia bizantina. Il papa Leone IX inviò a Costantinopoli una delegazione guidata dal cardinale Umberto di Silva Candida, portavoce delle rimostranze romane; il patriarca lo accolse con molta freddezza e dopo pochi convenevoli lo congedò e si rifiutò di discutere con lui il merito della vicenda. Il legato pontificio, indispettito da tale atteggiamento e stanco di aspettare per giorni un’udienza che evidentemente non sarebbe stata concessa, depose sull’altare della chiesa patriarcale la bolla di scomunica contro Michele Cerulario e riprese la via di Roma. Il patriarca radunò immediatamente un sinodo di vescovi limitrofi e in loro presenza bruciò il documento pontificio e pronunciò a sua volta la scomunica contro i Legati papali.
In realtà la reciproca condanna poteva essere semplicemente un episodio di incomprensione facilmente superabile. Così non è stato poiché alle spalle di questo gesto c’era già una lunga vicenda di progressivo allontanamento; la vera causa della separazione sta in quell’insieme di contrapposizioni tra latini e bizantini che riguardano i più svariati campi: la cultura, il linguaggio teologico, il rapporto tra religione e politica.
Nei secoli dal XI al XV il patriarcato di Costantinopoli estende la sua influenza a tutte le regioni slave e balcaniche, ma perde progressivamente quelle dell’Asia minore a causa dell’invasione islamica; anzi l’islam continuerà a minacciare la vita delle Comunità bizantine fino al XX secolo.
Nel frattempo si ebbero vari tentativi di riaprire il dialogo con la Chiesa romana: tali tentativi, che se non portarono alla ricomposizione generale dello scisma, produssero il rientro nella comunione con Roma di varie porzioni di cristiani orientali e che prendono il nome di Chiese uniate: gruppi di fedeli che mantengono il patrimonio spirituale e liturgico della propria tradizione orientale, ma riconoscono il primato dottrinale e giuridico del Pontefice di Roma, e quindi sono a pieno titolo cattolici.
Nel 1543, dopo lungo assedio durante il quale trovò la morte anche l’ultimo imperatore bizantino, Giovanni XI Paleologo, Costantinopoli cadde in mano ai turchi; da quel momento ha inizio il declino della capitale religiosa e politica dell’Oriente cristiano: le chiese vennero in gran parte confiscate, le scuole chiuse, e il patriarca, in tutto soggetto ai mussulmani, visse in quasi totale isolamento. La più importante conseguenza di questa situazione è il frazionamento della cristianità orientale: l’impossibilità del patriarca bizantino di esercitare il suo ruolo e la sua giurisdizione sulle comunità che lo avevano seguito nella separazione dalla Chiesa occidentale, le spinse a costituirsi in Chiese autocefale, cioè autonome. La prima è la Chiesa Russa: il sovrano di quelle terre approfitta della fine dell’impero d’Oriente per rivendicare per sé il titolo di zar, abbreviazione di Cesare, quindi sinonimo di imperatore; di conseguenza il vescovo di Mosca, ora definita “terza Roma”, ottenne di potersi proclamare patriarca e capo indipendente della nuova Chiesa autocefala di Russia. L’esempio russo spinse sulla strada dell’indipendenza anche le altre Chiese ortodosse: proclamano la loro indipendenza e si costituiscono in patriarcato autonomo i cristiani bizantini (melchiti) di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme nei secoli XVII-XVIII, gli ortodossi di Serbia nel 1830, di Romania nel 1835, di Grecia nel 1836, di Bulgaria nel 1873, di Cipro nel 1878, di Polonia nel 1924, di Finlandia nel 1925, d’Albania nel 1937. Dopo la seconda guerra mondiale sono sorte nuove Chiese ortodosse autonome in Cecoslovacchia, Georgia, Macedonia, Ungheria, Cina, Giappone e nell’America del Nord e del Sud. Attualmente le Chiese ortodosse autocefale sono 19, con un totale di circa 130 milioni di fedeli.